La realtà è che il calcio (come lo Stato) italiano è gestito in maniera da distruggere valore, vivere come le cicale, sperperare denaro, cancellare cultura imprenditoriale e manageriale.
L’opinione
di Federico Zacaglioni
Guardando “Stavamo bene insieme” su @DAZN_IT (docufilm che consiglio anche ai non milanisti), mi sono imbattuto nel cameo-intervista di Rafa Benitez, che ha voluto sottolineare come il budget di mercato del Liverpool 20 anni fa fosse di appena 20 milioni di euro. Forse un modo per aumentare l’aura di leggenda intorno alla sua squadra, che riuscì a fare due finali Champions in 3 anni, vincendone una. Forse una piccola esagerazione per rimarcare la differenza tra il suo team e il Milan delle leggende dell’era Berlusconi. Ma non è questo il tema. Non voglio parlare di competenza e di scelte di mercato.
Voglio parlare di ciò che è successo nel frattempo tra serie A e Premier League. Non sto qui a tediarvi sulle ragioni dell’esplosione del calcio inglese rispetto a quello italiano (stadi di proprietà e sempre pieni, diritti tv passati da 1,7 miliardi del 2004 agli attuali 5, investimenti stranieri attratti con una politica funzionale, ecc.). Ma un discorso sulle differenze con il declino italiano va fatto.
Negli anni del “campionato più bello del mondo” eravamo trainati da imprenditori che non definirei “mecenati” dato che hanno lasciato le macerie (Tanzi, Cragnotti, ecc.). In UK invece si è ragionato in ottica di sistema. Ai capitali stranieri (spesso discutibili e in odore di provenienza border line) si è scelto di costruire intorno un “sistema” culturalmente avanzato, che ha tutelato non solo i grandi club londinesi o le gemme di Manchester e Liverpool, ma anche e soprattutto le piccole squadre, garantendo introiti importanti anche ai club di fascia bassa.
Si è sviluppata anche la Premiership, sono state valorizzate competizioni come Charity Shield (la nostra Supercoppa), FA Cup e Coppa di Lega e si è investito molto sui settori giovanili. La gestione della Premier è stata affidata non alla politica dei presidenti, ma a commissioner indipendenti e sono state inserite regole anche di mercato (es. contratti più lunghi dei 5 anni e limitazioni qualitative per acquisto stranieri extra) che hanno alzato il livello e tutelato i patrimoni dei club (perché i calciatori sono asset). Gran parte delle risorse mediate nelle sessioni di mercato, restano nel sistema anche per operazioni “discutibili” (vedi i 100 milioni di pound pagati per un giocatore come Grealish o i 65 per Cucurella).
E’ nata così una lega che distacca tutte le altre come appeal, che i suoi supporters hanno voluto difendere (e ci credo…) contro l’idea della Superlega, forgiando anche un claim di marketing di successo come il “calcio del popolo”, che rappresenta un fenomeno di “sportainment” assimilabile solo alla NBA.
Nonostante a 1800 km da Roma succeda questo, nei giornali e nei media italiani scarseggia l’analisi sul perché non siamo stati capaci di percepire e assecondare questo cambiamento e la critica verso chi non è stato capace di riformare adeguatamente il sistema. Si ha l’impressione che gli attori del settore, dai dirigenti federali di Lega e di club, giù fino a giornalisti e “addetti ai lavori” si dilettino nella nobile arte del gattopardismo, tra griglie di partenza fatte con le figurine, narrazione dell’oppiaceo calciomercato (che obnubila la mente di ogni tifoso) e coperture strategiche di scandali e scandaletti.
Le analisi di economics e financials sono lasciate ai corsivi degli esperti, soverchiati dai titoli roboanti su CR7 che si ripaga con le magliette, Zhang che schiaccia tutti, o dalle markette per i parametri zero e i loro procuratori.
Questo porta a valutazioni deliranti da parte del pubblico su temi classici come “manca ambizione”, “mi aspettavo dopo l’acquisto del club investimenti corposi” ecc.
La realtà è che il calcio (come lo Stato) italiano è gestito in maniera da distruggere valore, vivere come le cicale, sperperare denaro, cancellare cultura imprenditoriale e manageriale.
Se non ci fosse chi traccia strade diverse in maniera visionaria, anche sbagliando (dire il Milan è facile, ma è il percorso anche di Napoli, Atalanta, in parte della Roma, e – tralasciando il quadro “alleanze” con la Juve delineato dai PM – di Sassuolo, Udinese, Fiorentina, ecc.) tra qualche anno finiremmo per avere un torneo al livello di quello greco, turco o ungherese. E il fatto che di questo non si parli (tranne pochi casi) nei giornali, in TV, sul web, è una delle cause del declino.
Purtroppo, si trova ancora accomodante raccontare le favole: il mercato dei sogni di club virtualmente falliti o tossicodipendenti di aumenti di capitale, un campionato con stadi comunali ancora scoperti e coi seggiolini degli anni 80, lo storytelling di vetrine imbandite di grandi occasioni (vi ricordate la telenovela Kaio Jorge?).
Faccio un esempio di un episodio che mi ha stupito, per la qualità del professionista coinvolto e per la sua competenza. In una puntata di novembre de “L’Originale” di Sky, uno dei migliori giornalisti sportivi italiani, si è lanciato in un consiglio per gli acquisti per alcuni club italiani (fece in primis il nome del Milan): c’è l’occasione Joao Felix – disse in soldoni – che è scontento dell’Atletico Madrid e del rapporto con Simeone. Gli feci notare su Twitter che acquisire un giocatore che prende 14,5 milioni/anno ed ha ancora 4 anni di contratto sarebbe stata un’operazione “scassabilanci” per chiunque in Italia. Ovviamente non ebbi risposta. E altrettanto ovviamente Joao Felix è andato in UK, al Chelsea dei mercati più psichedelici della storia, in prestito oneroso per 6 mesi a 12 milioni di euro.
Continuare a far pensare ai tifosi italiani che operazioni di questo tipo siano anche solo pensabili (non dico fattibili) a che giova, se non alla perpetuazione del racconto di un calcio del vorrei ma non posso, che si pensa ancora aristocratico ma che è come la coppia di nobili decaduti de “La grande bellezza”, impegnati a farsi pagare per partecipare ai salotti borghesi per dargli un tono?
Molto meglio lo stesso giornalista che, l’altra sera, ha gelato gli altri ospiti, che cercavano di argomentare ragioni tecniche, sentimentali o ambientali per un possibile scambio Kessie-Brozovic. “E’ solo uno scambio di plusvalenze”, ha giustamente sentenziato.
Tra disperati a caccia di doping per i propri bilanci e di fumo da dare agli occhi di tifosi sull’orlo di una crisi di nervi, avrebbe dovuto aggiungere.
Federico Zacaglioni è un milanista appassionato i cui tweet consigliamo vivamente di seguire. Quando è al lavoro occupa il posto di Head of corporate communication and external relations presso algoWatt.
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