3 Luglio 2024

RossoneroBlog

Fatti ed opinioni su AC Milan

Meglio i fondi sovrani del Golfo o gli investitori privati americani?

La certezza è che è finito il modello insostenibile del ricco proprietario o della famiglia danarosa

L’opinione

di Federico Zacaglioni

Meglio il Presidente “padre padrone”, meglio un fondo di investimento o meglio lo sceicco “ricco e scemo” che butta i soldi dalla finestra e ci fa sognare?

Sgombriamo subito il campo dalla prima ipotesi. Ormai i primi, in Italia, sono merce rara. Finita l’era dei magnati che trovavano nel calcio il terreno per confrontarsi e farsi la guerra fuori da Piazza Affari (Berlusconi, Moratti, Tanzi, Cragnotti, Cecchi Gori e compagnia cantando), sono rimaste nella storia bacheche importanti e a volte piene di trofei, ma anche le macerie. Gli ultimi rimasti di questa ondata (gli Agnelli e i Lotito) sono alle prese con ristrutturazioni pesanti o con il controllo dei costi. Altri, come Aurelio De Laurentiis, cercano strade originali per rendere remunerative le gestioni di club calcistici. E finora l’unica strada che hanno trovato è un modello di business ciclico, fatto di impennate di ricavi non recurrent quando vendono i gioielli, seguite da anni di consolidamento (quando va bene) o di ridimensionamento per poi ripartire. 

Per chi pensa che il calcio non sia diventato un’industry con le sue regole e i suoi benchmark da seguire, come già avviene in Premier League o negli sport professionistici statunitensi, resta solo il dilemma fondi o sceicchi. I cinesi, entrati per qualche anno a gamba tesa nel mondo del pallone, hanno dimostrato che fuori dai confini del comunismo di mercato non c’è capacità di gestire e sviluppare business sostenibili. E così gli ultimi “romantici” (io li definirei illusi) continuano a sperare nel magnate del petrolio che “mi porta Neymar, CR7, Messi e mi fa sognare”. 

LA NUOVA ASSET ALLOCATION DEI FONDI SOVRANI

Il fatto è che anche questa vulgata sta finendo, insieme alla narrazione dello sport washing e del soft power. Nei giorni scorsi, su Twitter, Ziad Daoud (Chief Emerging Markets Economist di Bloomberg) giornalista specializzato sul medio Oriente e sulle economie del Golfo, ha spiegato in un corposo thread che il focus degli investimenti Sauditi ed arabi in generale si sta spostando da asset “sicuri” (come il debito pubblico USA) ad investimenti più rischiosi ma a più alto rendimento potenziale nel lungo periodo. Tra questi il calcio, con PIF (il fondo sovrano saudita) che dopo il Newcastle starebbe puntando un altro obiettivo europeo per consolidare un network di club di proprietà, come hanno cominciato a fare gli emiratini del City Football Group (già sbarcati in Italia a Palermo) e i qatarioti del Qatar Investment Authority (che hanno puntato Tottenham, Malaga dopo l’FC Miami). 

Insomma, i fondi sovrani arabi – come le investment firm statunitensi – ritengono che dal calcio europeo si possa estrarre valore e generare ritorni economici più elevati rispetto all’asset allocation tradizionale. 

“La strategia saudita è cambiata nel 2016 – ha spiegato Ziad Daoud -. Nel 2005-14 l’Arabia Saudita ha parcheggiato il 60% del suo surplus come riserva sicura presso la banca centrale. Nel 2017-22: l’Arabia Saudita ha guadagnato $ 300 miliardi in eccedenza, ma le riserve sono diminuite. Dove sono finiti i soldi? In investimenti più rischiosi: le loro dimensioni sono quasi triplicate a 556 miliardi di dollari entro il 2022”. 

Lo spostamento di asset allocation, secondo il giornalista, è stato intenzionale. Nel 2016, Mohammed Bin Salman ha affermato di voler “fare degli investimenti la fonte delle entrate del governo saudita, riducendo la dipendenza dei ricavi dal petrolio”. Il fondo sovrano PIF, quindi, investirà le sue partecipazioni all’estero in asset che produrranno dividendi svincolati dai combustibili fossili. Tra questi proprio il calcio. 

CAMBIANO I BUSINESS MODEL

Ziad Daoud si è concentrato sui riflessi geopolitici di questo switch (tassi di interesse più alti del debito USA che ha visto ridursi gli investimenti del Golfo). Quello che interessa a noi, però, è il punto di ricaduta sul calcio europeo di queste decisioni. 

Oggi i fondi sovrani della penisola arabica non operano più come se avessero in mano delle start up da drogare finanziariamente con massicci innesti di capitale, anche esorbitante rispetto alle effettive necessità per rendere i club competitivi. Al contrario considerano le squadre di calcio come asset maturi da sviluppare seguendo metodi ordinati da “lifestyle companies”, che dopo il consolidamento saranno in grado di garantire rendimenti e dividendi. 

Guardate come PIF si comporta a Newcastle e come, invece, sta gestendo la crescita del movimento calcistico nazionale. In UK gestisce una crescita garbata e legata ai fondamentali del club, senza spese pazze e con know how europeo. Nel campionato saudita, invece, pompa finanza come se fosse un venture capital che deve bruciare le tappe e portare la sua start up a raggiungere rapidamente un valore potenziale elevatissimo. 

Percorso analogo lo stanno facendo PSG (che ha cambiato negli ultimi anni il suo modus operandi, affidandosi a Campos e tagliando secco costi e tenore degli investimenti) e Manchester City, che ha chiuso l’ultimo bilancio con ricavi per 613 milioni di sterline e un bilancio con un segno più finale da 41,7 milioni di sterline. 

Cambiano, dunque, i business model e cambia anche la prospettiva: non ci sono più (se mai ci siano stati) gli sceicchi e gli emiri ricchi e scemi, che spendono e spandono milioni di euro per vincere poco o niente. Ci sono, invece, investitori con obiettivi chiari: generare un ritorno elevato dagli investimenti dal calcio nel medio-lungo periodo, proprio a fronte di un rischio alto rappresentato dalla football industry. 

USA VS ARABIA 

Meglio, allora, i fondi sovrani del Golfo o gli investitori privati americani? Come disse il duca di Mantova nel Rigoletto: “Questo o quello, per me pari sono”. Già, perché se cambiano le modalità operative e gestionali, il fine dei soggetti è lo stesso. Generare valore dalla gestione di club di calcio. 

Gli arabi vogliono portare a casa i soldi gestendo direttamente dalle società (sotto forma di rendimenti e futuri dividendi), gli americani, probabilmente, confidano nella propria capacità di sviluppare il business e di gestire settori contigui ma ormai sovrapponibili nei confini, come sport, entertainment, informazione, fashion e cultura fino al real estate (leggi stadi di proprietà).
Per quello che si può vedere finora, la differenza sta nelle modalità di generare l’attesa di ROI (return on investment). L’esperienza di Elliott al Milan (e con ogni probabilità anche quella di RedBird) dimostra che il modello è quello di cedere l’asset al valore programmato per generare il ritorno atteso. Su quello che faranno gli arabi, non abbiamo ancora visibilità. Anche se il caso ManCity ci dimostra che si può gestire un grande club vincente generando utili da distribuire agli azionisti. 

La certezza è che è finito il modello insostenibile del ricco proprietario o della famiglia danarosa e tifosa che a suon di aumenti di capitale ripiana ogni anno perdite monstre per garantirsi il giocattolino. 

Oggi comanda la sostenibilità e l’autosufficienza operativa. Con buona pace degli youtuber in kefia che alimentano un racconto per gonzi. 


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